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Le Maschere Atellane

LE MASCHERE ATELLANE IN ALCUNE STATUETTE FITTILI DEL MUSEO PROVINCIALE CAMPANO DI CAPUA.

E’ notorio che il Museo Provinciale Campano di Capua, inaugurato sin dal 1874, conservi una ricchissima documentazione storica, artistica, archeologica e religiosa della civiltà campana (1); meno noto è, invece, che la sezione archeologica dello stesso vanti – tra l’altro – una cospicua collezione di statuette fittili avente a soggetto i personaggi delle cosiddette fabulae atellanae le quali, come ben sanno i cultori del teatro antico – ma anche quelli del teatro italiano moderno a motivo dell’ipotesi avanzata da dividersi autori di una derivazione dalle maschere atellane di alcuni personaggi della settecentesca Commedia dell’Arte (2) – sono delle antichissime farse popolari elaborate, alcuni secoli prima di Cristo, fra le popolazioni osche della Campania (3); in modo particolare ad Atella, da cui presero il nome (4).
L’origine delle fabulae atellanae fu segnata dal momento in cui le popolazioni osche – in stretto contatto con la cultura grega delle genti dell’Italia meridionale – imitando un genere di farse popolari, le cosiddette farse fliace (5), già molto diffuse nelle colonie doriche, in particolare a Taranto e Siracusa, ne accentuarono il tono mordace, intromettendovi qei rustici alterchi che poi le caratterizzeranno oltremodo, e che sono per molti versi simili a quelli dei più conosciuti fescennini romani.
Come per le fliace la tematica principale delle farse atellane era costituita da scenette di genere, briose e realistiche, basate sul contrasto fra tipi fissi, quali il padrone avaro e il servo geloso, il contadino sciocco e il passante intelligente, il vecchio innamorato e il giovane rivale; nelle quali l’intreccio si scioglieva tra contorsioni, smorfie, acrobazie, inseguimenti, spettacolari cadute e nel contesto di un percorso fertile oltre misura di situazioni ora piccanti, ora divertenti e paradossali: erano, insomma, gli aspetti farseschi l’elemento essenziale dello spettacolo. Sicuramente, si può affermare, che la trama dell’opera non ne costituiva l’aspetto fondamentale. Il più delle volte infatti, le farse si sviluppano su canovacci improvvisati dagli stessi attori (prima si preparava il solo intreccio delle scene), che indossavano un costume realizzato al momento con pochi stracci e una maschera dai tratt ben definiti (oscae personale) (6). Per questa ragione non era raro che attori delle atellane venissero scritturati da ciarlatani e mercanti per attirare il pubblico nel corso delle periodiche fiere mercantili. Del resto non è certo che questi spettacolo venissero rappresentati nei teatri. Lo stesso Maiuri ipotizzi, ma non si esprime con certezza, circa l’esistenza in Atella di un teatro per la rappresentazione delle farse (7).

Una volta importato a Roma, tuttavia, alcuni autori (Pomponio, Novio, Mummio e Aprissio) si sforzarono di dare a questo genere teatrale una forma letteraria che se – è vero – non sortì risultati niente affatto <<comparabili con la genuinità e la spontaneità dei guitti atellani>> (A. Cantile), fu comunque molto gradita dai romani.
In ogni caso le personae, quelli che oggi noi chiamiamo personaggi, erano caratterizzate ciascuna oltre che da un proprio eloquio, da una propria psicologia, in un rapporto inequivocabilmente ben definito – giustappunto attraverso l’uso delle maschere – anche dal punto di vista somatico. Le maschere erano per lo più realizzate con cortecce d’albero, terre policrome e tela cerata: molto scomode da portare, le sue parti in rilievo penetravano ben presto nella carne provocando fastidiosi disagi agli attori. Per non dire che, strettamente applicate al volto come erano, e per di più prive di un minimo di flessibilità, non permettevano alle palpebre di muoversi liberamente per cui le ciglia urtando contro i bordi delle fessure facevano lacrimare gli occhi in un pianto pressoché continuo. Gli antichi furono abilissimi mascherari e però, nonostante la produzione di maschere nel mondo romano fosse stata copiosissima, di questi oggetti, a causa della estrema deperibilità dei materiali con cui erano costruiti, non è purtroppo sopravvissuto nessun esemplare. Pertanto gli unici riferimenti che ci permettono di ricostruirne la morfologia – sia pure solo in parte, essendo le raffigurazioni il più delle volte d’incerta fedeltà a ragione di un elevato grado di stilizzazione – sono qualche riproduzione in bronzo (8), alcune pitture vascolari e parietali raffiguranti scene teatrali (9), e, soprattutto, diverse statuette fittili (10) come abbiamo appunto testimonianza, tra l’altro, negli esemplari a tutto tondo del Museo Campano di Capua che di qui a poco andremo ad illustrare.
Invero, una volta giunti al cospetto delle statuine, distribuite, tra l’altro in modo non omogeneo nella vetrina che le accoglie, esse potrebbero apparire come una delle tante variazione sul tema riscontrabili nelle numerose statuine fittili utilizzate con funzioni ornamentali in età romana; ad un osservatore più attento e sensibile all’arte scultorea non sfuggirebbe, sicuramente, la grossolana tozzezza del modellato, priva di una qualsiasi notazione di gusto; qualcun altro potrebbe invece biasimarne l’esigua definizione nei particolari.
E tuttavia, solo dopo un attenta osservazione si arriva a cogliere la valenza storica e documentaria del gruppo: solo, cioè, quando ci si rende conto che siamo in presenza di una rara rappresentazione unitaria – quasi un unicum – di tutti, o quasi, i personaggi delle Atellane. Il ritrovamento delle statuine tra le migliaia di analoghi esemplari variamente databili, e raffiguranti per lo più figure di offerenti, figure femminili ammantate, figure di animali, testine e vasetti miniaturistici, venuti alla luce nei dintorni di Capua e soprattutto nel fondo Patturelli a San Prisco unitamente alle famose sculture in tufo note come Matres matutae (11), non permette per questi pezzi una collocazione cronologica precisa, che va pertanto ipotizzata sulla scorta del solo esame stilistico: sicchè l’impostazione delle figure e la scarsa cura con cui sono resi i particolari (secondo una tipologia che si riscontra nelle coeve figure di genere) ne rimandano la realizzazione ad un arco di tempo che può grosso modo situarsi tra il IV e V secolo a. C.; anche se – va evidenziato – nel territorio capuano, come ha scritto recentemente B. Grassi <<il complesso della scultura in argilla e l’insieme della produzione d’uso non furono contraddistinti, dall’epoca arcaica fino all’età romana, da un gusto unico e monocorde, ma risentirono di diverse influenze stilistiche…>> (12).

I personaggi della commedia atellana erano quattro, e cioè: Maccus, Buccus, Pappus e Dossennus.
Maccus, dal greco maccoan che significa letteralmente <<fare il cretino>> o da una radice italica mala, maxilla che sta per <<uomo dalle grosse mascelle>> era un personaggio balordo, ghiottone, sempre innamorato, e per questo spesso beffeggiato e malmenato. Sulla scena era caratterizzato – come ben evidenzia l’anonimo ceroplasta capuano che realizzò la statuina a figura accovacciata del Museo Campano – da un vestito bianco, la testa coperta da un copricapo di origine siriaca, il cosidetto tutulus, una sorte di caratteristico <<coppolone>>, che forse indossava perché calvo e con la testa appuntita, e da una maschera a mezzo viso che gli copriva il naso adunco. Per la sua somiglianza con Pulcinella, secondo una vecchia disquisizione che ha dato origine ad una controversia mai sopita fra gli studiosi antichi e moderni, è considerato il progenitore della popolare maschera partenopea. Qualcuno, sia pure dubitativamente, vi ha voluto invece vedere l’antenato di Arlecchino.
Buccus, da bucca, una forma popolare latina che sta per <<uomo dalla bocca grossa>> era un personaggio prepotente ed infido, continuamente in conflitto con i contadini che tiranneggiava.
Era caratterizzato simaticamente – come già si intuisce dal nome e come meglio è dato vedere nei due rilievi capuani – da una enorme bocca che si stira in un ghigno smisurato; per il resto era caratterizzato da un profilo oltremodo pingue, che era ottenuto dagli attori con vistose imbottiture sul ventre e sul deretano allo scopo di accentuarne il carattere informe.
Pappus, dal grego pappos traducibile in <<antenato>>, altrimenti denominato Casnar in lingua osca, impersonava un vecchio babbeo e vizioso. A motivo di questo suo humus psicologico era pertanto raffigurato, come si evidenzia nei due rilievi in possesso del Museo Campano, vestito in modo discinto e con una facies consona alla sua fama di libidinoso. Ragione quest’ultima che aveva fatto paragonare più tardi l’imperatore Tiberio al personaggio, come ricorda pure Svetonio (13).
Dossennus, nome dalla radice etrusca ennus e tuttavia riconducibile al latino dossus – dorsum, che sta per gobba, è il saccente proprietario terriero ambizioso e vanitoso, un po’ mago e un po’ filosofo, astuto e sempre affamato. La statuina capuana lo raffigura giustappunto con la gobba, una enorme bocca e l’aria di chi ostenta sapienza.
Le suddette maschere agivano con l’ausilio di altre figure – gli acrobati e soprattutto i mimi – ai cui risvolti buffoneschi erano legati, tra le altre, le esibizioni del mimus albis e del mimus centunculus, cosiddetti per via del costume che indossavano: bianco, nel primo caso; di toppe variopinte, nel secondo. Caratteristiche queste, che, in quanto ritornano nelle figure di Pulcinella ed Arlecchino hanno rafforzato ancor di più, in alcuni studiosi, la convinzione di una larga derivazione delle maschere moderne da quelle atellane.
E ancora con questi personaggi ne agivano altri, non ancora bene identificati, e di cui a Capua si conserva qualche esemplare. Tra questi si evidenziano due singolari figure. Una prima, forse rapportabile a quel Chichirro citato da Orazio in una delle sue satire (14) caratterizzato dalla testa crestata e dal naso a becco di gallina secondo una configurazione somatica che – come ha fatto osservare qualche autore – presenta anch’essa, una spiccata somiglianza con la maschera di Arlecchino; e una seconda figura, denominata Manducus perché caratterizzata da una enorme bocca e dal grosso pancione – e per questo confuso, talvolta, con Pappus.

(1) AA.VV., Il Museo Campano di Capua, Caserta 1974, con bibliografia precedente.
(2) Tra i numerosi autori, che con motivazioni più o meno sottili, sostengono questa derivazione classica si ricordano, tra gli altri il Doni, il Riccoboni, Flogel, Klein, Caylus, Semola, Micali, Schlegel, Campana, Dieterich, Mommsen, Villari e, più recentemente Anton Giulio Bragaglia. Di contro Scherillo e Croce, con argomentazioni altrettanto sottili, respingono qualsiasi legame con il teatro classico. Altri studiosi, invece, hanno ipotizzato che pi che essere una continuazione o ripetizione di questi tipi, conservatasi fin oltre il Medio Evo, le moderne maschere siano originale, spontaneamente, nel periodo rinascimentale, per poi svilupparsi tra la fine del Cinquecento e il Seicento.

(3) La letteratura sull’argomento è vastissima. Una corposa e completa bibliografia in merito è riportata da F. E. Pezone, Atella, Napoli, 1986, cui si possono aggiungere come ultimi contributi la monografia L’Atellana, ovvero le “Fabulae Atellanae”, da <>, a cura della Soprintendenza Archeologica di Avellino e Salerno, ivi, 1988 e più recentemente il saggio di G. Vanella, La fabula atellana e il teatro latino, in << Rassegna Storica dei Comuni>> a. XX (n.s.), nn. 74 – 75 (Luglio-Dicembre 1994), pp. 3-24.

(4) Atella, come riportato da numerose fonti antiche e moderne – validamente riassunte da G. Petrocelli nel primo capitolo del volume a cura di AA.VV., Atella e suo casali, la storia, le immagini, i progetti, i Napoli, 1991, pp. 7 – 16, cui si rimanda per gli approfondimenti del caso – fu in origine un piccolo centro osco, sorto nel VI sec. A. C., grosso modo tra gli attuali abitati di Sant’Arpino, Succivo, Orta e Frattaminore. Assurse al ruolo di città solo più tardi, grazie agli Etruschi, che riuscirono a farne un centro di primo ordine dal punto di vista economico e militare, e a darle un decoroso assetto dal punto di vista urbanistico, come confermano resti delle mura di fortificazione venute alla luce nel maggio del 1980. Insieme a Capua della quale seguì in ogni tempo le sorti, Atella ottenne nel 338 a. C. la cittadinanza romana senza voto; della quale venne privata per essersi data ad Annibale – prima tra le città campane – dopo la battaglia di Canne, nel 211 a. C. Per la stessa ragione la maggior parte della popolazione fu deportata a Calatia e a Turi, in Apulia. Mentre i cittadini non deportati vennero divisi nei campi in piccoli insediamenti, i pagi, da cui sarebbero poi originati la maggior parte degli attuali paesi intorno ad Aversa e a Nord di Napoli. Ripopolata più tardi dai Nocerini Atella riacquistò l’antica grandezza, tanto che Cicerone, nel 63 a. C., ancora la ricorda come una delle più importanti città della Campania; importanza cui contribuì non poco il florido commercio di derrate alimentari tra la città e il resto della regione, favorito anche dagli importanti collegamenti stradali che l’attraversano. Divenuta successivamente municipium romano Atella fu oggetto di una ulteriore deduzione colonica da parte di Augusto. Nel 537 a causa della guerra gotica fu di nuovo in parte abbandonata, conservando tuttavia la sede episcopale fino al IX secolo, quando ormai semidistrutta e resa invivibile dai miasmi provenienti dalle circostanti paludi, originatesi per il progressivo impaludamento del vicino Clanio, venne completamente abbandonata dai pochi abitanti superstiti, che si trasferirono negli immediati dintorni, la più parte ad Aversa, che ne ereditò pure la cattedra vescovile.

(5) Le farse fliace – dal grego flyaros, chiacchiera, buffone – erano in origine delle rappresentazioni improvvisate su un rudimentale canovaccio. Solo più tardi, nella prima metà del III secolo a. C., a Taranto, furono elevate a dignità letteraria grazie a Rintone e a Scira e Bleso, suoi continuatori (cfr. M. Gigante, Rintone e il teatro in Magna Grecia, Napoli, 1971).

(6) Va comunque precisato che l’uso di portare una maschera con lo scopo di crearsi un volto finito più espressivo, grottesco o magari “orrendo” come lo definisce Virgilio (Georgiche, II, pp. 385 e ssg.), era già invalso presso i partecipanti alle pratiche magico-rituali e anche in coloro che recitavano negli antichi spettacoli teatrali orientali.

(7) A. Maiuri, Passeggiate campane, Milano 1938, pag. 18.

(8) L’archeologo Anton Francesco Gori riconobbe, suffragato nel giudizio da Flogel e Klenin, la figura di Maccus in un bronzetto attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York, venuto alla luce nel 1727 nel corso di alcuni scavi sull’Esquilino. Una raffigurazione a disegno del bronzetto è in L. Riccoboni, Storia del Teatro Italiano, X, 1731.

(9) Tra i rilievi fittili più significativi si segnalano: le due maschere conservate al museo del Teatro della Scala (qui si conserva anche una rarissima tessera in bronzo che veniva utilizzata come biglietto sulla quale è incisa in rilievo una maschera atellana); le due statuine, l’una con la raffigurazione di Maccus, l’altra di Dossennus, che si conservano a Parigi rispettivamente presso il Museo del Louvre e presso la Biblioteca Nazionale, dove il secondo rilievo pare sia giunto già in epoca murattiana direttamente da un paese atellano tramite un ufficiale francese (comunicazione orale Prof. Giuseppe Geromi); le statuine con le sembianze di Buccus e di un’altra maschera non ben definibile che si conservano al British Museum di Londra; diverse terracotte dei Musei Vaticani di Roma. Laddove le più interessanti rappresentazioni di scene delle atellane è però in una serie di frammenti di vasi, firmati da tale M. Perennio, venuti alla luce tra il 1833 ed il 1887 nei pressi della chiesa di Santa Maria dei Gradi ad Arezzo tra i ruderi di una fornace romana risalente al I secolo dell’Impero scoperta durante alcuni lavori di sterro per la costruzione di una palazzina (cfr. U. Pasqui, Nuove scoperte di antiche figuline dalla fornace di M. Perennio, in <>, pp. 453-466)

(10) Ancora nel settecento, alcuni anni dopo la scoperta del Gori, venne trovata negli scavi pompeiani una pittura raffigurante una scena del Maccus miles ( G. Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Firenze 1832, pag 233); alla fine del secolo scorso A. Dieterich, Pulcinella: Pompeianische Wandbilder und romische, Leipzig 1897, rintracciò in alcuni graffiti pompeiani raffigurazioni di Maccus, mentre A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica (ed. italiana tradotta da G. Gherardini), Napoli 1841, ricorda una figura somigliantissima a Maccus con la sottostante scritta Civis Atellanus dipinta sulla parete di una casa pompeiana. In tempi relativamente più recenti, il Maiuri scopriva, sempre a Pompei, in un vicolo tra l’ottava e la nona insula della I regione, nella casa decima, due figure dipinte di saltores, uno dei quali col pileus ed una mezza maschera nera sul viso alla maniera della moderna maschera di Pulcinella. (cfr. E. Grassi, Comunicazione su di una scoperta del Maiuri a Pompei di un Maccus-Pulcinella, al 2° Congresso Internazionale di Storia del Teatro).

(11) Il fondo Patturelli era ubicato poco fuori le mura dell’antica Capua, nei pressi della via Appia, grosso modo fra le cosiddette Carceri Vecchie e l’attuale località denominata S. Pasquale. Nel 1845, l’allora proprietario, nel corso di alcuni lavori di sterro, rinvenne i resti di un santuario con alcune delle famose sculture. Timoroso di una possibile interruzione dei lavori non avvisò le autorità competenti facendo reinterrare il tutto. Successivamente, nel 1873, gli scavi furono ripresi con intenti “scientifici”, che però di scientifico ebbero ben poco, visto che una gran mole di materiale archeologico venne avviato, grazie allo scandaloso menefreghismo delle istituzioni preposte, verso i ricchi mercati d’antiquariato del Nord Europa. Più recentemente, nel 1995, alcuni saggi hanno permesso di individuare parte del sito del santuario, nonché il recupero di un altro cospicuo numero di terracotte, attualmente esposte nel Museo Archeologico dell’Antica Capua di S. Maria Capua Vetere.

(12) B. Grassi, La scultura in argilla, in AA.VV., Il Museo Archeologico dell’Antica Capua, Napoli 1995,m pag. 38.

(13) Svetonio, De Vit. Caesar., 75.

(14) Orazio, Satire 1-5, 51.