(1) AA.VV., Il Museo Campano di Capua, Caserta 1974, con bibliografia precedente.
(2) Tra i numerosi autori, che con motivazioni più o meno sottili, sostengono questa derivazione classica si ricordano, tra gli altri il Doni, il Riccoboni, Flogel, Klein, Caylus, Semola, Micali, Schlegel, Campana, Dieterich, Mommsen, Villari e, più recentemente Anton Giulio Bragaglia. Di contro Scherillo e Croce, con argomentazioni altrettanto sottili, respingono qualsiasi legame con il teatro classico. Altri studiosi, invece, hanno ipotizzato che pi che essere una continuazione o ripetizione di questi tipi, conservatasi fin oltre il Medio Evo, le moderne maschere siano originale, spontaneamente, nel periodo rinascimentale, per poi svilupparsi tra la fine del Cinquecento e il Seicento.
(3) La letteratura sull’argomento è vastissima. Una corposa e completa bibliografia in merito è riportata da F. E. Pezone, Atella, Napoli, 1986, cui si possono aggiungere come ultimi contributi la monografia L’Atellana, ovvero le “Fabulae Atellanae”, da <>, a cura della Soprintendenza Archeologica di Avellino e Salerno, ivi, 1988 e più recentemente il saggio di G. Vanella, La fabula atellana e il teatro latino, in << Rassegna Storica dei Comuni>> a. XX (n.s.), nn. 74 – 75 (Luglio-Dicembre 1994), pp. 3-24.
(4) Atella, come riportato da numerose fonti antiche e moderne – validamente riassunte da G. Petrocelli nel primo capitolo del volume a cura di AA.VV., Atella e suo casali, la storia, le immagini, i progetti, i Napoli, 1991, pp. 7 – 16, cui si rimanda per gli approfondimenti del caso – fu in origine un piccolo centro osco, sorto nel VI sec. A. C., grosso modo tra gli attuali abitati di Sant’Arpino, Succivo, Orta e Frattaminore. Assurse al ruolo di città solo più tardi, grazie agli Etruschi, che riuscirono a farne un centro di primo ordine dal punto di vista economico e militare, e a darle un decoroso assetto dal punto di vista urbanistico, come confermano resti delle mura di fortificazione venute alla luce nel maggio del 1980. Insieme a Capua della quale seguì in ogni tempo le sorti, Atella ottenne nel 338 a. C. la cittadinanza romana senza voto; della quale venne privata per essersi data ad Annibale – prima tra le città campane – dopo la battaglia di Canne, nel 211 a. C. Per la stessa ragione la maggior parte della popolazione fu deportata a Calatia e a Turi, in Apulia. Mentre i cittadini non deportati vennero divisi nei campi in piccoli insediamenti, i pagi, da cui sarebbero poi originati la maggior parte degli attuali paesi intorno ad Aversa e a Nord di Napoli. Ripopolata più tardi dai Nocerini Atella riacquistò l’antica grandezza, tanto che Cicerone, nel 63 a. C., ancora la ricorda come una delle più importanti città della Campania; importanza cui contribuì non poco il florido commercio di derrate alimentari tra la città e il resto della regione, favorito anche dagli importanti collegamenti stradali che l’attraversano. Divenuta successivamente municipium romano Atella fu oggetto di una ulteriore deduzione colonica da parte di Augusto. Nel 537 a causa della guerra gotica fu di nuovo in parte abbandonata, conservando tuttavia la sede episcopale fino al IX secolo, quando ormai semidistrutta e resa invivibile dai miasmi provenienti dalle circostanti paludi, originatesi per il progressivo impaludamento del vicino Clanio, venne completamente abbandonata dai pochi abitanti superstiti, che si trasferirono negli immediati dintorni, la più parte ad Aversa, che ne ereditò pure la cattedra vescovile.
(5) Le farse fliace – dal grego flyaros, chiacchiera, buffone – erano in origine delle rappresentazioni improvvisate su un rudimentale canovaccio. Solo più tardi, nella prima metà del III secolo a. C., a Taranto, furono elevate a dignità letteraria grazie a Rintone e a Scira e Bleso, suoi continuatori (cfr. M. Gigante, Rintone e il teatro in Magna Grecia, Napoli, 1971).
(6) Va comunque precisato che l’uso di portare una maschera con lo scopo di crearsi un volto finito più espressivo, grottesco o magari “orrendo” come lo definisce Virgilio (Georgiche, II, pp. 385 e ssg.), era già invalso presso i partecipanti alle pratiche magico-rituali e anche in coloro che recitavano negli antichi spettacoli teatrali orientali.
(7) A. Maiuri, Passeggiate campane, Milano 1938, pag. 18.
(8) L’archeologo Anton Francesco Gori riconobbe, suffragato nel giudizio da Flogel e Klenin, la figura di Maccus in un bronzetto attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York, venuto alla luce nel 1727 nel corso di alcuni scavi sull’Esquilino. Una raffigurazione a disegno del bronzetto è in L. Riccoboni, Storia del Teatro Italiano, X, 1731.
(9) Tra i rilievi fittili più significativi si segnalano: le due maschere conservate al museo del Teatro della Scala (qui si conserva anche una rarissima tessera in bronzo che veniva utilizzata come biglietto sulla quale è incisa in rilievo una maschera atellana); le due statuine, l’una con la raffigurazione di Maccus, l’altra di Dossennus, che si conservano a Parigi rispettivamente presso il Museo del Louvre e presso la Biblioteca Nazionale, dove il secondo rilievo pare sia giunto già in epoca murattiana direttamente da un paese atellano tramite un ufficiale francese (comunicazione orale Prof. Giuseppe Geromi); le statuine con le sembianze di Buccus e di un’altra maschera non ben definibile che si conservano al British Museum di Londra; diverse terracotte dei Musei Vaticani di Roma. Laddove le più interessanti rappresentazioni di scene delle atellane è però in una serie di frammenti di vasi, firmati da tale M. Perennio, venuti alla luce tra il 1833 ed il 1887 nei pressi della chiesa di Santa Maria dei Gradi ad Arezzo tra i ruderi di una fornace romana risalente al I secolo dell’Impero scoperta durante alcuni lavori di sterro per la costruzione di una palazzina (cfr. U. Pasqui, Nuove scoperte di antiche figuline dalla fornace di M. Perennio, in <>, pp. 453-466)
(10) Ancora nel settecento, alcuni anni dopo la scoperta del Gori, venne trovata negli scavi pompeiani una pittura raffigurante una scena del Maccus miles ( G. Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Firenze 1832, pag 233); alla fine del secolo scorso A. Dieterich, Pulcinella: Pompeianische Wandbilder und romische, Leipzig 1897, rintracciò in alcuni graffiti pompeiani raffigurazioni di Maccus, mentre A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica (ed. italiana tradotta da G. Gherardini), Napoli 1841, ricorda una figura somigliantissima a Maccus con la sottostante scritta Civis Atellanus dipinta sulla parete di una casa pompeiana. In tempi relativamente più recenti, il Maiuri scopriva, sempre a Pompei, in un vicolo tra l’ottava e la nona insula della I regione, nella casa decima, due figure dipinte di saltores, uno dei quali col pileus ed una mezza maschera nera sul viso alla maniera della moderna maschera di Pulcinella. (cfr. E. Grassi, Comunicazione su di una scoperta del Maiuri a Pompei di un Maccus-Pulcinella, al 2° Congresso Internazionale di Storia del Teatro).
(11) Il fondo Patturelli era ubicato poco fuori le mura dell’antica Capua, nei pressi della via Appia, grosso modo fra le cosiddette Carceri Vecchie e l’attuale località denominata S. Pasquale. Nel 1845, l’allora proprietario, nel corso di alcuni lavori di sterro, rinvenne i resti di un santuario con alcune delle famose sculture. Timoroso di una possibile interruzione dei lavori non avvisò le autorità competenti facendo reinterrare il tutto. Successivamente, nel 1873, gli scavi furono ripresi con intenti “scientifici”, che però di scientifico ebbero ben poco, visto che una gran mole di materiale archeologico venne avviato, grazie allo scandaloso menefreghismo delle istituzioni preposte, verso i ricchi mercati d’antiquariato del Nord Europa. Più recentemente, nel 1995, alcuni saggi hanno permesso di individuare parte del sito del santuario, nonché il recupero di un altro cospicuo numero di terracotte, attualmente esposte nel Museo Archeologico dell’Antica Capua di S. Maria Capua Vetere.
(12) B. Grassi, La scultura in argilla, in AA.VV., Il Museo Archeologico dell’Antica Capua, Napoli 1995,m pag. 38.
(13) Svetonio, De Vit. Caesar., 75.
(14) Orazio, Satire 1-5, 51.